Descrizione Progetto
La “mia” TransLagorai
di Franco Brigoni
Ne parlo in prima persona, senza citare i compagni, perché le sensazioni che una traversata del genere può suscitare, sono soggettive e intime come i motivi che spingono a compierla, soprattutto alla mia età.
La scrivo perché non ho buona memoria e serve a ricordare i dettagli.
– La prima metà di agosto 2022, vicino a passo Rolle, fa caldo e sto sudando copiosamente.
E ripenso a qualche ora fa, quando al bivacco Aldo Moro, nonostante fossi adeguatamente vestito, le folate a 2565m di altitudine mi facevano rabbrividire.
Comunque sia, ormai la sto portando a termine. Tra poco sarò al parcheggio e anche la Tranlagorai, è “messa nel sacco”.
In 5 giorni complessivi, ho percorso 85 Km di sentieri, da Vetriolo Terme (sopra Levico) a passo Rolle.
Più di 5000 metri di dislivello positivo, faticosamente accumulati, con oltre 15 Kg di zaino sulle spalle.
Esperienza straordinaria, nel “deserto” austero della catena del Lagorai.
Di forcella in forcella, attraverso interminabili macereti di massi di porfido, accatastati in un caos che solo millenni di crolli e frane hanno potuto generare.
Col bel tempo, con la pioggia, immerso nella nebbia delle nuvole, un paio di notti negli unici rifugi, una in un bivacco ed altre due in tenda.
Tenda . . . si fa per dire: non è una tenda, bisogna “limare sui pesi”, quindi è sufficiente un semplice telo impermeabile, di quelli verdi, generici, acquistabili in ferramenta, mi ci avvolgo compresa la parte sotto a contatto col terreno, facendo sostenere il colmo, a forma di tendina canadese, da un cordino teso tra zaino e bastoncini da trekking. Funziona egregiamente e la notte prima della partenza, l’ho trascorsa così.
– I° giorno, sveglia presto e si inizia passando a mezza costa sotto le cime dei monti Fravort e Gronlait, per citare i più noti, sul versante che guarda la valle dei Mocheni, transitando dal lago Erdemolo, per arrivare al rifugio Sette Selle con una discreta sgambata: più di 1000m di dislivello e 18 Km macinati.
Al piccolo rifugio, piacevolmente essenziale, l’accoglienza e ottima. La cena è buona e abbondante. Si dorme nel sottotetto in camerata condivisa, ma senza problemi.
– II° giorno, come scoprirò in seguito, nonostante si tratti di un percorso definito “in quota”, ogni mattina inizia con una salita bella tosta, poco male, almeno si è freschi del riposo notturno. D’altronde sapevo cosa mi aspettava.
A passo Manghen, unico attraversamento stradale a diretto contatto con la “civiltà”, sosta e approvvigionamento liquidi.
Si prosegue fino al lago delle Stellune: caratteristica conca alpina, con tanto di mandria al pascolo. Mi allontano dal bestiame e senza scendere fino al laghetto, trovo un piccolo spazio panoramico e piatto, che mi sembra adatto a mettere il campo. Più in basso, a qualche centinaio di metri di distanza verso la riva, ci sono un paio di altre tende.
Alle 18:30, “l’accampamento” è già pronto e dopo una frugale cena, mi corico molto prima che faccia buio. Non c’è null’altro da fare, il cielo nuvoloso nega la vista di un bel tramonto e l’aria fresca invita a rintanarsi nel sacco a pelo.
Durante la notte, lampi e tuoni: due distinti temporali separati da parecchie ore. Fortunatamente le precipitazioni non sono state troppo intense, anche se con alcuni chicchi di grandine, ma nel mio involucro sono rimasto all’asciutto.
In questo frangente, ho scoperto che il buio non impedisce alle mucche di pascolare dondolando il campanaccio che hanno al collo, svegliandomi più volte e costringendomi, in un caso, ad uscire ed allontanarle per il timore di venire calpestato. Tutto sommato però, il mattino mi sono sentito sufficientemente riposato.
– III° giorno, l’obbiettivo è il rifugio Baita Cauriol, in val Sadole (sopra Ziano di Fiemme).
Il meteo, ieri, prevedeva tempo incerto con piovaschi e peggioramento nel tardo pomeriggio.
La scarpinata prosegue con i soliti saliscendi, un po sotto la pioggia, un po nel grigiore delle nuvole, attraversando ambienti ora deserti, ma che poco più di cent’anni fa, durante il primo conflitto mondiale, brulicavano di soldati. Rimangono decine di ruderi di baracche e postazioni, che passo dopo passo emergono spettrali dalla foschia.
Nonostante la nebbia, la segnaletica è talmente frequente e ben evidenziata, da rendere impossibile perdere il sentiero, che inaspettatamente, in alcuni brevi tratti, si arrampica su passaggi esposti, ripidissimi e attrezzati con cavo d’acciaio e staffe dove appoggiare i piedi.
Dopo circa 7 ore, nel primo pomeriggio, finalmente la meta. Lo zaino, in effetti, cominciava a dare un po’ fastidio.
Il rifugio, recentemente ristrutturato e ampliato, pur conservando dimensioni ridotte, è molto confortevole. All’interno della sala da pranzo, sono installate alcune vetrinette contenenti reperti bellici risalenti alla Grande Guerra puntualmente catalogati e descritti.
Anche qui ottimo trattamento con pasti buoni e abbondanti.
Poco prima del tramonto si scatenano gli elementi con violenti rovesci, ed il pensiero va, solidale, alla giovane coppia incrociata poco oltre passo Sadole, che con ogni probabilità si trova all’aperto, ad affrontare le intemperie.
– IV° giorno, come sempre, si parte in salita, ma stavolta il dislivello da sormontare senza intervalli, è il maggiore di tutto il tragitto, poi naturalmente viene il resto, ma frazionato.
La giornata è splendida. A forcella Cadinon mi concedo la cima solo una cinquantina di metri più alta. Ridisceso al passo, oltre il crinale, molto più in basso osservo il lago delle Trute, di fronte più in alto e più distante il lago Brutto, incastonato tra versanti scoscesi e reso brillante dal riflesso del sole.
Calato a forcella Coldosè, vado a vedere l’omonimo bivacco, ma è occupato e non voglio disturbare. La struttura è in legno con l’aspetto di un piccolo baito, sembra piuttosto recente e sulla facciata è addirittura installato un minuscolo pannello fotovoltaico, utile, presumo, a ricaricare il cellulare.
Rimontato il lago Brutto, salgo a forcella Moregna, dove l’ennesimo segnavia mi avvisa che manca ancora parecchio.
Scendo . . . e risalgo . . . e riscendo e risalgo.
Finalmente arrivo al bivacco Paolo e Nicola, sulla forcella di Valmaggiore.
Oggi non mi va di proseguire, anche se è presto. La piccola costruzione in legno è accogliente e ben isolata (ad esempio, i serramenti hanno i doppi vetri) e sulle brande ci sono materassini rivestiti da igienica fintapelle che non assorbe fluidi . . .
È appena mezzogiorno ed ho camminato circa 4 ore, ma verificando la traccia registrata, noto che il dislivello lasciato alle spalle, è di poco inferiore ai 1200m.
Mi fermo.
A circa 200m di distanza, più in basso sul versante rivolto a sud, verso la val Vanoi, c’è una sorgente ben segnalata, riempio le borracce e mi predispongo al riposo notturno in vista dell’ultimo e forse più impegnativo tratto, non perché sia maggiormente difficile o lungo, ma perché il peso dello zaino diventa sempre più fastidioso e la stanchezza comincia a farsi sentire. (gambe escluse, che sorprendentemente continuano ad avanzare senza dare segni di cedimento).
– V° giorno, si sale per aggirare la cresta di Cima Cece ed oltre la selletta appesa tra le guglie, dal lato della val Caserine mi si presenta uno stretto canalino con una serie di ripidi tornantini alquanto franosi. Scendo con la dovuta cautela, ma poco più a valle la direzione non mi convince e pur essendo evidente la prosecuzione del sentiero, di segni-guida non se ne vedono più.
Infatti, la traccia sul cellulare mi indica che devo retrocedere e risalire venti o trenta metri.
Costantemente con un occhio alle precise informazioni digitali, trovo la deviazione, unico caso di segnaletica inefficace. Proprio in un punto dove è richiesta la massima attenzione per vedere dove posare i piedi, la direzione giusta s’inerpica sul fianco roccioso quasi verticale alto un metro e mezzo, dove il segno bianco e rosso è difficilmente individuabile, quasi completamente scolorito e l’ometto di pietre, che anch’io contribuisco ad incrementare, non era che un misero mucchietto di piccoli sassi alto sì e no 15 cm, perfettamente mimetizzato con l’ambiente circostante.
Si prosegue ancora su immensi cumuli di massi con gli inevitabili su e giù, fino al bivacco Aldo Moro, presso forcella Bragarolo.
Una tipica “scatoletta” d’alta quota in lamiera verniciata di rosso, dove provo ad entrare per ripararmi dal vento, ma nonostante sia quasi mezzogiorno, l’interno gelido consiglia di trovare un angolino “riparato” fuori, al sole. Un’ultima sosta, solito frugale “pasto” con alimenti leggeri e disidratati che fatico a deglutire e si riparte.
Dopo un po’, riconosco in lontananza, la sagoma del monte Colbricon e tiro un sospiro di sollievo.
Mi attende ancora un buon tratto di roccia, stavolta compatta, e oltrepassata forcella Ceremana, devo solo valicare passo Colbricon ed iniziare la discesa conclusiva verso i laghetti e l’omonimo rifugio, per rientrare dalla comoda stradina al parcheggio di passo Rolle.
– Erano anni che desideravo e rimandavo questo trekking, mentre l’età avanzava. Ora è archiviato.
Pur sapendo di non aver fatto qualcosa di eccezionale, per me è stata un’esperienza importante, in cui ci si trova a fare i conti con se stessi, spesso soli, isolati dal resto del mondo e “sopraffatti” dalla grandiosità di un ambiente così suggestivo e severo.
Mettendosi in gioco, non si deve lasciare nulla al caso, una banalità può trasformarsi in un incidente dai risvolti sgradevoli, se non altro, per l’assenza di copertura telefonica su quasi tutto il percorso, associata alla ridotta probabilità di incontrare altri escursionisti nei lunghi tratti normalmente poco frequentati.
– Che altro dire, a 65 anni, soglia oltre la quale si è classificati anziani, mi sono sottoposto ad un dinamico test cardiopolmonare, dai risultati confortanti.
Quanto all’aspetto della solitudine, mi piace, ci sono abituato ed è una condizione alla quale, forse troppo spesso, non riesco ancora a rinunciare.
– Sicuramente più per fortuna, che per merito, fisicamente sto bene e grazie ad un buon allenamento, non accuso postumi, nessun trauma da sovraccarico, nessun dolorino articolare o muscolare, niente vesciche, in compenso la bilancia rileva una perdita di peso corporeo prossima ai 7 Kg.
F. B.